di Mauro Coni
Mi sembrava di averla già vista, certe mattine, volteggiare accanto alla finestra della mia stanza. Come se stridesse, o mi chiamasse, o semplicemente stando lì pretendesse la mia attenzione. Vedevo un volto umano sulla minuscola testa nera. Ma ero mezzo addormentato, scombussolato dopo la traversata notturna. Quando spalancavo i vetri non c’era più, né dentro né fuori. Proiezione forse di qualche anima che mi pensava. Un giorno si consegnò, la trovai sul desco e la misi in una teca. Lì la osservavo, sgranocchiando un cracker o bevendo un caffè. Mi si era offerta, e si mostrava, ma era più distante che mai. Certe mattine sfoggiava tinte polari, azzurre e screziate, le ali cosparse da una finissima polvere bianca. Altre volte invece stava nei toni dell’ocra, sabbiosa, remota, amica del vuoto. Ero confuso. Vedevo volare lo splendido insetto, che trasmutava davanti ai miei occhi eppure… Sapevo che c’era un legame tra noi ma non capivo quale. La notte spesso mi alzo, vado a bere un bicchier d’acqua. Ne approfitto per vederla ma al suo posto, nella teca, trovo un biglietto: delle parole, scritte in caratteri lillipuziani. Cerco di leggerle, ad alta voce, e mi ritrovo in un vortice. Vedo me stesso, nel buio ch’è grande, e senza mappe, dove mi aspetta lei.

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