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Pasolini, Antonucci ed io…

A Roma c’era una volta lo “Scapicollo” una sorta di “terra di confine” che divideva il borghese quartiere di Monteverde Vecchio da quello più popolare di Donna Olimpia. Lo “Scapicollo” era una valletta, ovviamente non ancora edificata come invece accadrà qualche anno dopo,  polverosa ed irta di sassi, alcuni molto acuminati, sia mobili che “incastonati” nel terreno, posta sulla sinistra di via Fonteiana con la caratteristica di avere i suoi due lati entrambi in  marcata salita e con quello che andava verso via di Villa Pamphili, dalla parte opposto a via Fonteniana, proprio a ridosso dell’allora piuttosto nota trattoria/ ristorante da “Checco allo Scapicollo”  preceduto e contornato dalla parte che guardava la suddetta valletta di varie varie piante spontanee fra cui delle belle fronzute e fruttifere piante di fichi sotto le quali d’estate, di mattina e pomeriggio, ci riunivamo a giocare a carte ed a parlare del più e del meno ( e magari a battibeccare della Roma e della Lazio) mentre la sera la zona, tranquilla ed appartata, era il ritrovo esclusivo degli innamorati tutti più grandi di noi. “Checco allo Scapicollo” che, qualche anno dopo, fra l’altro venendo meno lo “Scapicollo” causa costruzione palazzi, con un in primis culturale nel Liceo Morgagni, si trasferì  in quel dell’ EUR. Lo “Scapicollo” però all’epoca  (inizio anni ’60) era piuttosto noto per delle “epiche” partite di pallone che vedevano impegnati i “ragazzetti” di Monteverde contro quelli di Donna Olimpia; delle vere e proprie sfide calcistiche che si svolgevano normalmente il sabato di primo pomeriggio ( la mattina all’epoca di sabato si andava ancora a scuola) ed il pallone (prezioso) che era ovviamente quello di cuoio con il lacci, lo portavamo una volta per ciascuno. Le partite, radunavano sempre un nutrito pubblico ( non che vi fossero in giro molti divertimenti e gratis) il quale sostava in piedi (qualcuno che abitava lì vicino, a volte, si portava da casa anche qualche sedia, piuttosto sgangherata, piazzandosi ben prima dell’inizio in prima fila) su quello che era lo pseudo marciapiedi di via Fonteiana. Le regole erano semplicissime: le porte si facevano con gli abiti, l’arbitraggio era condiviso, con molta onestà reciproca, fra le due squadre, le quali non vedevano mai  in campo  più di sette elementi per squadra portiere incluso ( lo spazio sia in lunghezza che in larghezza – viste poi  di quali “pendici” fruiva – non lo permetteva proprio) ed il tempo degli incontri era sempre di un’ora e mezza ( ovviamente senza pausa) circa. “Circa” perché era stato deciso che non vi dovevano essere pareggi e dopo un’ora e mezzo se si era in pareggio vinceva chi segnava per primo. Le sfide erano sempre molto sentite e piene di “tigna” come si dice a Roma, e ben “condite” di falli, in genere non cattivi, cercando magari di evitare di farli sulle ali le quali fra sassi, buche ed inclinazione del terreno potevano rivelarsi, anche per dei “rimbalzoni” come eravamo, piuttosto pericolosi. In una di queste partite molto tirate in generale, ma quella in particolare perché il sabato precedente avevano vinto, abbondantemente, i coetanei di Donna Olimpia e noi di Monteverde cercavamo almeno una rivincita indipendentemente dal numero dei gol che avevamo subito la settimana precedente, ricordo molto bene come, palla al piede, fintai a destra scartando invece l’avversario a sinistra finendo però la mia corsa bocconi lungo in terra a seguito di un gran bel fallo nel quale, per fortuna, istintivamente misi le mani davanti salvando la faccia, ma, ovviamente, non le mani che cominciarono a sanguinare a mò di stigmati verdi, che più verde non si può, vuoi per l’erba che mi aveva ben marcato i vestiti vuoi per una fortissima ira che mi aveva pervaso  iniziai a  prendere a male parole ed a spintonare sempre più forte l’autore (piccolino  di statura e minutino nel fisico ma questa cosa nella rabbia del momento passò in secondo ordine) del fallo che, quasi inebetito vuoi per il fallo che per la mia incontrollabile e rabbiosa reazione, stava pure per prendersi, in diretta, qualche pugno da parte mia, quando fra noi due si interpose, spingendoci di lato entrambi, un uomo non alto ma muscoloso, il quale, avendo capito il momento topico che stava per coinvolgere in una megarissa tutti i componenti delle due squadre, aveva disceso precipitosamente la scarpata da via Fonteniana, dicendo al mio avversario: “Ma giocandoci contro  non ti sei accorto che lui è mancino e quindi dopo aver fintato tende sempre a scattare a sinistra? E per questo,  magari non volendo,  hai fatto veramente un fallaccio che in una partita regolare sarebbe da espulsione”. A sentire ciò, da parte di una persona, fra l’altro maggiorenne,  che comunque capiva di calcio e calmato anche da compagni ed avversari, mi presi la punizione che comunque non battei io in quanto risalii a via Fonteiana a lavarmi le mani ad un “nasone” che era nei pressi, calmandomi quindi ulteriormente quando sentii un grido di gioia da parte dei “miei” che avevano segnato, forse ( chissà, non avendo veduto l’azione di gioco) anche per una certa “disattenzione” temporanea  da parte di quelli di Donna Olimpia. Tornato a casa, per fortuna, trovai solo mia madre e mia sorella che fecero “sparire” gli abiti sdruciti e sporchi e mi curarono e fasciarono le due mani dicendo poi a cena a mio padre che nel frattempo aveva chiuso il  nostro piccolo bar, in affitto, di viale Quattro Venti che avevo inciampato su di un sampietrino sporgente, sotto casa in via Bricci, cadendo in malo modo causa per il mio “viziaccio” di andare sempre di corsa. Mi ricordo bene l’espressione di mio padre che guardandomi in tralice, disse solo: “Sarà!”. Pochi giorni dopo mia madre, che il pomeriggio sostituiva mio padre alla cassa del  bar, mi disse che era passato a cercarmi, più di una volta, un ragazzo che di nome faceva Gabriele, al che replicai dicendo che non conoscevo nessun Gabriele e quindi che la cosa non mi interessava più di tanto. Circa una settimana dopo fui io che sostitui sia mio padre che mia madre alla cassa e nell’occasione capitò il succitato Gabriele (che anche il nostro barman Adriano contestualmente mi disse che era quello che mi aveva cercato più di una volta) che con grande garbo ed educazione mi chiese come stavo e come stavano le mie mani, al che gliele feci vedere completamente guarite chiedendogli pure se prendeva qualcosa visto che io stavo per bermi una Coca Cola al che accettò di dividerla con me dicendomi sommessamente: “ Se te la senti facciamo  pace?”. “Certo (gli risposi) ti pare che per un fallo di gioco non dobbiamo farla, fra l’altro credo di aver esagerato pure io considerando come ho reagito pur sapendo cosa significa giocare nel campetto dello “Scapicollo” soprattutto sulle ali che sono due scarpate come tu ben sai Gabriele”. “Hai perfettamente ragione Arnaldo, comunque scusami ancora”. Visto comunque quanto era genuino e sincero il mio coetaneo gli chiesi, scuse a parte, come mai era da quelle parti  al che mi disse che poi proseguiva perché andava a parlare sul marciapiedi davanti all’Ideal Bar, che era un centinaio di metri più giù del baretto di mio padre, sempre su viale dei Quattro Venti, con uno scrittore  che lui conosceva che faceva di nome Pierpaolo Pasolini, il quale ora era anche un regista visto che aveva realizzato da poco il suo primo film “Accattone” chiedendomi anche se avevo visto il film per parlarne insieme magari con l’autore. Al che gli risposi che magari preferivo andare a vedere il film per parlarne con vera cognizione di causa, cosa che però non potei fare in quanto “Accattone” era stato il primo film italiano che prese il divieto a chi aveva meno di 18 anni, anche se poi quando ripassò il buon Gabriele ( che avevo iniziato ad apprezzare in quanto era veramente un ottimo, intelligente e tranquillo coetaneo) accettati di buon grado di andare a conoscere lo scrittore e neo regista Pierpaolo Pasolini. Ci furono vari incontri con Pasolini organizzati da Gabriele sempre verso sera sul marciapiedi dell’Ideal Bar (Pasolini all’epoca abitava in via Giacinto Carini che era molto vicina a viale dei Quattro Venti nello stesso palazzo dei Bertolucci – Bernardo ed il padre Attilio) e furono tutti dei veri e propri “bagni” di cultura sociale in quanto il Personaggio era veramente di un livello intellettuale decisamente superiore ed era sempre molto disponibile ed interessato alle domande che gli ponevamo, offrendoci delle risposte, affatto venate dalla visione politica, di una chiarezza e di una lungimiranza incredibile che partivano da una lucidissima  cultura globale veramente “ mostruosa”. Non ho mai  compreso, oppure (forse) l’ho compreso dopo qualche anno riflettendoci su, perché per questi incontri socio culturali dell’imbrunire con Gabriele e me, Pasolini aveva scelto che si svolgessero sempre, come un rito, nello stesso luogo nonostante, più di una volta, avevo dato la disponibilità ad ospitarli seduti più comodamente ad un tavolino esterno del piccolo bar di mio padre. Il motivo (forse) era che una cinquantina di metri più su rispetto all’Ideal Bar c’era una delle più importanti sezioni del PCI  romano che vedeva fra gli iscritti gente del calibro politico di Giancarlo e Giuliano Pajetta, Luigi Longo,Lucio Libertini etc. e Pierpaolo Pasolini era stato espulso da quello che era il “suo” partito già nel 1952 “per indegnità morale e politica”. Comunque come suddetto il tramite che mi fece conoscere Pasolini fu il mio coetaneo Gabriele che di cognome faceva Antonucci, un Gabriele Antonucci che già all’epoca in cui lo conobbi si esercitava già nella “nobile arte” del giornalismo in quanto appena sedicenne (aveva un anno più di me) già faceva parte della redazione del mensile  “Realtà Sovietica” essendo fra l’altro iscritto al PCI per poi essere fra i fondatori del “Manifesto” per uscirne poi a metà degli anni ’70 quando il giornale diviene l’organo del PDUP per poi arrivare al quotidiano “la Repubblica”che in occasione della sua morte scrisse il 4 marzo 1990: “Gabriele Antonucci era arrivato a Repubblica nel 1979 e subito si era meritato l’ appellativo di Fanfan La Tulipe, spadaccino lucido, coraggioso e romantico. Le sue lame erano il gusto caustico dell’ ironia, un’ incontentabilità morale e intellettuale incapace di compromessi e il piacere della provocazione raffinata e mai volgare. Accompagnava le sue battute spesso salaci e la passione per il dibattito con una gentilezza innata, che non gli faceva mai alzare la voce. E così, battagliero e cortese, ci ricordò subito la dolcezza di Gerard Philipe e del suo spadaccino. I più giovani lo chiamavano invece lo zio per quella sua ostinazione a non concedere niente ai tratti di superficialità e di pressappochismo a cui spesso cede il mestiere. Un collega scomodo, ma anche amato: un binomio raro, quale riescono a coniugare solo le persone colte e rispettate”. Pier Paolo Pasolini lo rincontrai poi nel 1969 quando lavoravo all’Ufficio Edizioni della Euro International Film ed andai alla Tecnostampa a Roma in via Albalonga ad assistere alla proiezione del film “Medea” che la Euro distribuiva per prendere in “consegna” dal regista il film da presentare in censura; nell’occasione Pasolini, presentandomi Maria Callas ed il produttore Franco Rossellini, si ricordò subito come e quando c’eravamo conosciuti grazie a Gabriele Antonucci dicendo, sia all’attrice che al produttore, di quanto ero romano con i miei antenati risorgimentali uccisi insieme a Giuditta Tavani Arquati. Ringraziandolo di quanto aveva detto loro, mi complimentai con la Callas per la sua interpretazione e con Pasolini per aver scelto un atleta come Gentile per la parte di Giasone e soprattutto Laurent Terzieff per interpretare (formidabilmente) il centauro Chirone, non dimenticandomi, come doveroso in questi casi, di estendere i miei complimenti anche al produttore Rossellini per l’importante qualità culturale della pellicola che, gli dissi subito, avrebbe senz’altro avuto le lodi della critica. Cosa che in effetti fu anche se non ebbe poi lo sperato successo con di pubblico, tanto è vero che, come Euro, non stampammo, dopo l’uscita del film nelle sale cinematografiche, neppure una copia in più rispetto a quelle programmate. Fu quella l’ultima volta che incontrai lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini persona di indubbia notevolissima cultura, di grande sensibilità sociale e molto lucido e preciso nell’analisi dei tempi che avevamo attraversato, che stavamo attraversando e verso cui ci stavamo proiettando.

                                          Arnaldo Gioacchini

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