Arnaldo Gioacchini *
Diciamo subito, al fine di evitare qualsiasi fraintendimento, che citando la Cultura di Rinaldone non si va affatto a parlare di una persona di tale nome e del suo spessore culturale ma bensì di una facies (termine mutuato dalla geologia per definire un ambito archeologico omogeneo) che prende nome dalla località di Rinaldone una zona geografica collinare posta a nord di Viterbo (siamo in prossimità di Ferento uno dei non trascurabili luoghi della successiva cultura “etrusca”) che si estende fino a Montefiascone ove all’inizio del 1900, esattamente nel 1903, vennero rinvenute poche tombe da parte dell’archeologo Pernier (conservate al Museo Etnografico Pigorini a Roma) che studiate a fondo, in particolare dall’archeologa Paola Laviosa Zambotti, si rivelarono come l’espressione funeraria di una non nota, fino ad allora, cultura eneolitica – età del rame – (3.500/4.000 anni a.C.) che la stessa studiosa volle tipizzare e nomare, in omaggio alla zona dei ritrovamenti, come la Cultura di Rinaldone.
Per anni si è pensato che la C.d.R., in cui gli abitanti (di capanne su pali) erano cacciatori, pastori e raccoglitori, fosse localizzata solo nella zona dei primi ritrovamenti ed in prossimità degli alvei dei fiumi Fiora e Marta ed intorno al lago di Bolsena, invece, a seguire, in tempi molto più vicini a noi, nel il territorio a sud, sud-est di Roma, una dopo l’ altra, sono state riportate alla luce numerose necropoli di cui finora si ignorava l’ esistenza. Necropoli appunto di Rinaldone, ma anche della Cultura di Laterza (successiva a quella di Rinaldone – 2350 a.C.) questa particolarmente diffusa tra Lazio e Campania. Per quanto concerne la Cultura di Rinaldone gli studiosi della Sovrintendenza Archeologica di Roma hanno effettuato, nell’hinterland della capitale, una “ondata” di ritrovamenti di necropoli a Cinquefrondi (Osteria del Curato), alla Romanina, a Lunghezzina, alla Selvicciola ed a Ponte delle Sette Miglia (sulla Tuscolana). Ritrovamenti questi fatti di nessuna scrittura, poche armi e molti misteri concernenti gli interrogativi su usi e riti misteriosi di questi lontani predecessori della Roma antica.
Perché a volte collezionavano ossa tutte di un tipo? Perché usavano tombe collettive, in cui continuavano a seppellire morti lungo un arco di tempo che a volte superò il millennio? C’era una selezione? Chi ne usufruiva? Di per se le necropoli rinaldoniane sono risultate piccole ma nello stesso tempo piuttosto “inquietanti”. Si va infatti da contenuti cimiteri di tre, cinque tombe a necropoli più consistenti di 13/15 tombe, organizzate a volte anche in cerchi di ignoto significato. Tombe dalla strana forma: Un vestibolo scavato nel tufo, un passaggio chiuso da lastre pesanti e poi , oltre la chiusura, ecco il sepolcro vero e proprio a “grotticella”. Tombe a volte contrassegnate da un segnacolo che le chiudeva dall’ alto. All’interno di questi sepolcri gli archeologi effettuarono importanti e poco spiegabili ritrovamenti: Spilloni di argento anche uguali in diverse tombe (per incastonare bastoni di comando?), frammenti di vaso rotti a bella posta, vasi a fiasco col collo stretto ma anche vasi non a fiasco ed a volte armi, pezzi di ascia, punte di freccia, lame accanto a vasi con solcature, ed ancora perle e lamine d’ argento! E poi che dire delle lastre di copertura portate lì da lontano, lastre fatte di grossi pezzi lavici non appartenenti al territorio delle necropoli. Elementi quindi non solo costruttivi ma anche forse rappresentativi di una qualche sorta di rito. Come pure rituali appaiono le collezioni di ossa lunghe, ritrovate in alcune tombe. E poi erano tombe riservate non a tutti gli abitanti dei luoghi ma solo ad alcuni “eletti” di essi? Comunque, da questi ed altri elementi, è venuta la certezza che prima degli Etruschi, il quasi identico territorio, sia stato abitato da un popolo che ha lasciato i semi di elevate conoscenze scientifiche, come nel caso dell’osservatorio di Poggio Rota nella zona di Pitigliano. Vi è anche da dire che una volta giunti gli Etruschi non depredarono le tombe di questi predecessori, come è quasi sempre avvenuto al sopraggiungere di popoli diversi in una certa area, anzi ne hanno avuto rispetto quasi che si trattasse dei propri antenati, in proposito è molto emblematico il caso della “ tomba numero 7 ”, nella necropoli di Naviglione, vicino a Farnese. La tomba risultò riutilizzata nel periodo etrusco. Gli archeologi, nel ripulirla, scoprirono una piccola cavità nella roccia che conteneva due vasi rinaldoniani ancora integri, cosa questa che fu interpretata come atto di rispetto? per i precedenti utilizzatori del sepolcro. Purtroppo anche qui, (come è avvenuto molto spesso, ma non sempre, con gli Etruschi – i Rasenna – ndr), la maggior parte delle ricerche sono state indirizzate quasi esclusivamente al mondo dei morti, per cui nonostante questo popolo fosse dotato di importanti conoscenze nel campo sia della metallurgia che dell’astronomia si può parlare solo di “cultura” e non di “civiltà” di Rinaldone. E poi c’è ancora da dire, in epoca più recente, dei due sub immersisi a ridosso dell’isola più grande del lago di Bolsena (la Bisentina – ndr) i quali ritrovarono un teschio umano perfettamente conservato che dai Carabinieri fu consegnato alla Procura della Repubblica visto le indagini che erano in corso in quel periodo per far luce su delle morti misteriose avvenute in zona. Procura della Repubblica la quale dispose subito delle perizie medico-legali per comprendere a chi poteva risalire tale particolarissimo reperto umano. Grande fu la sorpresa quando dal test del Dna e dalla prova del carbonio 14 emerse che tale reperto, in ottimo stato di conservazione, era di un giovane uomo (età fra i 25 ed i 35 anni) vissuto almeno 3.500 anni prima! Si trattava dei resti di una testa di un palafitticolo lacustre dell’Età del Bronzo probabilmente appartenente alla così detta “Cultura di Rinaldone” una delle più antiche civiltà dell’Italia preistorica da cui sarebbero poi sorte prima la nazione etrusca ed, a seguire, quella romana. La Procura,chiudendo il caso, affidò l’antico reperto, di così alto interesse storico e archeologico, alla Università della Tuscia affinché ivi potesse essere ulteriormente studiato e valorizzato. Fra l’altro il lago di Bolsena racchiuderebbe nei suoi fondali, andando ancor più a ritroso nel tempo, tracce e segreti di alcune delle più antiche culture italiche vissute nell’area fino ad oltre 5.000 anni a.C., ma questa è un’altra storia appartenente alla storia della quale, forse, parleremo in un’altra occasione.
* Membro del Comitato Tecnico Scientifico dell’Associazione Beni Italiani Patrimonio Mondiale UNESCO
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