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Quel 7 settembre 1969 ad Ulassai quando non fu solo calcio…

Ho raccontato, attraverso la pagina di Facebook “Foghesu Altrimenti Perdas De Fogu”, l’avvincente incontro di calcio disputatosi il 7 Settembre 1969 ad Ulassai. Un ricordo che il tempo non ha per niente scalfito e sbiadito, un ricordo che mi è rimasto impresso e stampato nella memoria, un ricordo piacevole e pieno di emozioni in quanto la mia squadra del cuore, la mia comunità, si affacciava e si tuffava prepotentemente nell’olimpo del calcio Regionale. Ho vissuto, in quel 7 settembre, una giornata straordinaria iniziata con il materno calore di mia mamma Maria, proseguita con l’amore di nonna Giustina e terminata con la gioia immensa della vittoria del mio Perdas. Ho raccontato, poi, a Marcello tutte le mie sensazioni, le mie emozioni, le mie gioie di quella fantastica trasferta, di quella straordinaria festa di Santa Barbara. E’ stata tradotta tutta la mia passione, che ha generato un mix di emozioni-sensazioni sentimenti in questo sublime racconto. Una Coppa stracolma di felicità di Marcello Guerriero “Non è dato alla misera polvere Respirare il fuoco degli dei.” (Tjutčev) “Ad attendere la squadra in paese due ali di folla, assiepata lungo il corso principale del paese, che acclama e festeggia i giocatori come eroi …” Così, Salvatore Mura, storico dirigente e giocatore della S.S. Perdasdefogu ricorda, cinquanta anni dopo, nella sua pagina di Facebook “Foghesu Altrimenti Perdas De Fogu”, il rientro a Perdasdefogu della squadra di calcio dopo la vittoria del torneo di Santa Barbara in Ulàssai. Quei “ragazzacci” entusiasti nella loro divisa biancoceleste, esultanti come mai prima di allora, per dirla con Galeano “ Giocavano col pallone come i bambini con il palloncino o come il gatto con il gomitolo di lana”; giocavano cioè, per il solo gusto di giocare, e quel loro calcio pionieristico non si era ancora tristemente trasformato in spettacolo con molti protagonisti e pochi spettatori, come quello di oggi, finito nelle mani delle tv e di milionari annoiati. Quella vittoria fu una grande impresa che però ha rischiato di finire per sempre nelle acque del fiume della dimenticanza. Un piccolo e brutto trofeo, era il solo documento storico rimasto di quella prima delle tante giornate di magia che solo il calcio è stato capace di dare al nostro piccolo paese; ma quell’ossidato testimone di latta, oggi non esiste più. Qualcuno, figlio di questo mondo d’apparenza e di superficialità, giudicandolo indegno di un piedistallo o di un piccolo spazio su una semplice mensola, lo ha gettato via, forse in un cassonetto dell’immondizia, insieme alle emozioni e ai sentimenti in esso “contenuti”. Il tempo toglie tempo a tutto ciò che è mortale e, lentamente, complice di quel “qualcuno”, avrebbe potuto far affogare in quelle acque dell’oblio quella storica impresa e quelle emozioni vissute dalla nostra comunità mezzo secolo fa. Fortuna volle che un “innamorato grave” di Perdasdefogu, il nostro Salvatore Mura, appassionato studioso della storia foghesina, in un certo senso protagonista di quella impresa sportiva, riuscì a beffare tempo e arroganza riportando a galla quella storia ormai quasi annegata nelle acque del Lete, dandole ossigeno vitale con quel post su Facebook. Ma ora vi racconto come forse è andata quella storia. Era il 7 settembre del 1969 quando un irrequieto “Torigeddu”, allora undicenne, inforcò la Legnano degli anni ’50 con i freni a bacchetta che il padre custodiva gelosamente nel sottoscala, con tanto di catena e lucchetto, per dirigersi, “pedalante-cicleggiante”, verso Ulàssai, dalla nonna materna. Doveva percorrere circa 25 chilometri di strada sterrata, di saliscendi, di curve e controcurve per quella visita che, si capisce, non era disinteressata. Infatti, alle ore 16.00 di quella storica domenica, la neonata squadra di calcio, il Perdas ‘69, di cui Tore era già grande tifoso, avrebbe dovuto disputare la finale di quel torneo, organizzato dalla S.S. Ulàssai in occasione della festa di Santa Barbara, contro il Bari Sardo. Un sogno, per il piccolo “Torigeddu”. Il giorno prima, alla notizia della vittoria sul Lotzorai che consentiva al Perdas 69 l’accesso alla finale, aveva provato ad assicurarsi un posto in macchina tra i numerosi tifosi che avrebbero seguito la squadra anche in capo al mondo, ma la risposta era stata sempre la stessa: -ho la macchina piena, dovevi dirlo prima-. Capì presto che l’unico modo per arrivarci sarebbe stato quello di partire per conto suo. Il giorno trascorse lento. Aveva progettato quella specie di fuga, che gli avrebbe permesso di assistere a quella finale per lui importantissima, nei minimi particolari. Andò presto a letto, la notte era calma, avvolta in un silenzio di tomba che veniva interrotto, ogni qualche secondo, solo da un dolce e ipnotico “chiù”. “L’assiuolo”, che col suo verso ispirò al poeta pensieri di morte, per quel bambino assonnato era invece il caro amico “assoggi”, che il nonno gli fece conoscere già da piccolissimo; e il suo verso intermittente e lungo una notte intera, dolce e soporifero, nelle notti estive scandiva lento il tempo e accompagnava quel bambino nel mondo dei sogni. “Fino a che gli anni non avranno cacciata via la tua gioia spensierata, dormi, o caro! che non tocchino le amare tristezze i tranquilli giorni della fanciullezza!” Beato Torigeddu! Era ancora in quella spensierata età che ai bambini sembra infinita e gli anni, anzi gli attimi, trascorrono così lenti che nessuno pare accorgersi del loro fluire definitivo. Stanco, dormì di un sonno pesante. Sognò di giocare lui quella partita, con indosso la maglia di Gigi Riva, la numero 11. Si vide correre al fianco dei suoi beniamini, lottare su ogni pallone, dribblare uno, due, tre avversari; sentì il boato della folla al suo gol, quello della vittoria. Un gol spettacolare, naturalmente. Si era dovuto arrampicare fino al cielo, spalle alla porta, per colpire quella palla altissima con una spettacolare sforbiciata, di quelle che sapevano fare solo il grande attaccante del Cagliari e, in sogno, i bambini come lui. La folla entusiasta e rumorosa, gli abbracci dei compagni e forse un urlo di gioia, vero ma involontario, lo svegliarono di soprassalto, ma anche in tempo per l’attuazione del suo piano. Rimase qualche minuto seduto sul letto per mettere ordine nella sua mente confusa da quel brusco risveglio. -Che strano,- pensò! – ho fatto un sogno bellissimo, ma non capisco perché la squadra del Perdas era composta da bambini. Tutti i giocatori in campo e anche l’arbitro erano bambini; e anche i tifosi erano bambini!- In sogno non si era visto adulto tra gli adulti, si era visto così com’era, anzi, forse un po’ più piccolo, e anche i compagni e gli avversari erano bambini. Solo bambini in quel sogno! Sì, i compagni di squadra erano i veri giocatori del Perdas, ma bambini. Non seppe darsi una spiegazione, forse perché non ce n’era una. Chissà, forse era il suo inconscio a tenerlo in quella bella età perché sapeva che è meglio così, nei sogni e nella vita. Si lavò e si vestì velocemente, liberò la bicicletta dalla catena che la legava ad un’anella fissata alla parete del sottoscala e la nascose fuori dal cortile, pronta all’uso. Attese il rientro della madre da “missigedda” per fare colazione con lei. Il padre era già andato in campagna che era ancora buio, e fu facile per lui far credere alla madre, davanti a una tazza di caffellatte e a una fetta di pane bianco abbrustolito, che approfittava della cortesia di un paesano, diretto ad Ulàssai, per andare a stare dalla nonna per la festa di Santa Barbara; in fondo non era la prima volta che lo faceva. Avuto il permesso dalla madre, ora aveva il problema di attraversare il rione senza farsi vedere dai vicini con la bicicletta, perché avrebbero potuto fermarlo se avessero sospettato qualcosa da quella sua insolita uscita e fargli una specie di terzo grado. Allora era così: il vicinato era una grossa famiglia, ogni adulto era come un genitore per i bambini del rione, e quindi responsabile della loro educazione. Percorse furtivo via Arborea spingendo la bicicletta senza far rumore, passando davanti alle porte e alle finestre di quelle case con tanti occhi e tanti orecchi, con una certa apprensione. Giunto al corso principale, a “su stradoni”, sospirò forte, saltò in sella e, un po’ tremante per l’emozione dell’avventura che stava intraprendendo, si diresse verso Ulàssai. Il caldo era soffocante. I primi chilometri in leggera salita si rivelarono più duri del previsto e, dopo tanto pedalare, vedere “Funtana ‘e grifoni” lo incoraggiò non poco. – Acqua!- Buttò la testa sotto quel getto d’acqua fresca, ne empì le mani e si sciacquò più volte la faccia e il collo, e bevve. Bevve fino a non poterne più, come se facesse rifornimento per sé e per la bicicletta. Stette a riposare qualche minuto sul bordo della vasca con i piedi immersi in quell’acqua fresca e rinvigorente. Pensò alla strada fatta, che era poca, e a quella da fare, che era tanta: – ce la farò?- si disse – o forse è il caso di tornare indietro? Mancano ancora una ventina di chilometri e sono già stanco!- E stanco lo era davvero. Forse non aveva dosato bene le forze, o magari era troppo piccolo per quella ardua impresa degna di un Fausto Coppi. Torigeddu era però un tipo caparbio e orgoglioso, troppo orgoglioso per arrendersi, e poi, quel Perdas 69 appena iscritto ai campionati della F.I.G.C., che intingeva per la prima volta il pennino nel calamaio del tempo per scrivere il primo capitolo della sua storia, che oggi sappiamo lunga e gloriosa, non poteva lasciarselo sfuggire. Pensava al funambolico Manfredi Carrabusu, il suo eroe, il Garrincha foghesino che segnava caterve di gol in ogni partita: – certo che di gol, e anche belli, gliene ha fatti tanti alla squadra militare!- si disse. -E all’ Escalaplano? Loro sì che lo conoscono bene, lo temono proprio!- disse tra sé ancora più convinto. Aveva assistito a numerose partite di quel Perdas che non riusciva a nascere, di quei ragazzi che portavano la fiamma della passione, che erano anima ma non avevano un corpo in cui riconoscersi. Ma, ora, quel Perdas concepito da tantissimo tempo, era finalmente nato, aveva il suo corpo e già muoveva i primi passi e, lui, Tore, voleva stare al suo fianco da subito. Da un po’ di tempo in paese si parlava tanto di un certo Ceripa, un militare che a tutti sembrava un vero campione e, per quella finale, risultava tra i convocati; ed è pensando a lui che il piccolo sognatore si disse: –devo farcela, non posso mancare, devo assolutamente vedere questa benedetta finale!- Tolse i piedi dall’acqua e aspettò qualche minuto perché il sole li asciugasse; mise calze e scarpe, poi ancora un sorso d’acqua e via, verso l’agognata meta. Fantasticando e pedalando, ma anche soffrendo, finalmente arrivò in località Sant’Antoni, sul lungo rettilineo; aveva percorso più di 18 chilometri, stanco da non poterne più. Trafelato, madido di sudore, con la polvere che gli raschiava la gola e con quella insistente vocina che gli ordinava di fermarsi e di tornare indietro, poggiò un piede a terra e guardò avanti. Il lungo rettilineo sembrava finire dentro quella montagna di roccia scabra e vecchia come il mondo, pareva fermarsi lì, come se non portasse in nessun dove. Ulàssai sembrava lontanissima. Ma, ormai, il più era fatto, lo sapeva bene e, come un gregario fedelissimo al suo capitano, impiegò le ultime energie rimastegli per dare nerbo alle sue esili gambe, che iniziarono a spingere sui pedali con forza a lui sconosciuta. Quella forza improvvisa e sorprendente, generata più dalla motivazione che dagli stanchi muscoli, gli fecero sembrare quegli ultimi sei chilometri qualcosa di poco più di una lunga discesa. Pedalava senza più fatica, come Eddy Merxx – il grande campione belga che proprio quell’anno si era imposto per la prima volta al Tour de France con quasi diciotto minuti di vantaggio sul secondo- in quelle sue imprese mostruose in cui macinava chilometri e avversari e niente riusciva fermarlo! E, proprio come lui, come quel fuoriclasse delle due ruote, si sentiva quell’incredibile bambino: – sì, sono “ il Cannibale”, sono Eddy Merxx!- Superò il bivio che porta a Ulàssai, e poi ancora qualche curva in salita, e il caldo e la sete e la polvere! – Ulàssai!- Il cartello d’ingresso del paese fu come un’oasi per un nomade del deserto. Vi si appoggiò a quel cartello, stremato e dolorante, ma soddisfatto. – Nonna!- pensò. E da lei si diresse, e vi arrivò in un attimo, senza più forze, assetato e affamato. Fu accolto con gioia dalla nonna. L’anziana donna capì subito i bisogni impellenti del nipote e, senza dire una parola, riempì una tazza di terracotta con l’acqua fresca di una brocca, anch’essa di terracotta, tenuta nella zona più in ombra di quella silenziosa casa; poi apparecchiò la tavola per il pranzo. Il piccolo Tore bevve avidamente e mangiò fino a non poterne più. Riprese in poco tempo le energie lasciate per strada e, mentre la nonna mangiava senza fretta, assaporando quelle patate dell’orto e il tempo che scivolava lento come il suo masticare, rimase a guardarla. Tore la osservava stupito di quella lentezza, di quella calma e, mentre lei tagliava un piccolo pezzo di “moddigina” fatta con le sue mani, che profumava di odori oggi sconosciuti, che sapeva di cenere e di casa, di caldo, di sole e di pietre, di falce e di mani callose, di buono e di sacro, pensò a quanto le volesse bene, a quanto avrebbe voluto stare con lei più spesso e più a lungo. Si alzò e la baciò, per ringraziarla del pranzo e del suo amore. Sgomberarono la tavola e restarono a parlare come due vecchi amici. Tore informò la nonna di alcune novità foghesine, della famiglia e di non molte altre cose, perché la testa cominciò presto a farsi pesante e a ciondolare, mentre le palpebre si riaprivano con sempre maggiore fatica. Alla fine il sonno ebbe il sopravvento e lui si addormentò sulla sedia con braccia e testa appoggiate sul tavolo e con un discorso lasciato a metà. Fu presto svegliato dalla nonna che gli aveva preparato il letto per schiacciare un pisolino: -riposa tranquillo figlio mio, fra un’ora ti sveglio, non temere-. Non ci fu bisogno di svegliarlo, mezz’ora dopo era già in piedi, pieno di vigore. Passò un po’di tempo con gli animali del cortile, e questo lo distolse dai pensieri della partita che si sarebbe giocata tra qualche ora. Galline, oche, gatti e un simpaticissimo cane lo occuparono per una buona mezz’ora. Guardò l’orologio e, come elettrizzato, quasi scappò lasciando la nonna stupita da tanta fretta in un giorno dedicato al Signore, al riposo, alla calma. Ma quell’anziana donna sapeva cosa vuol dire essere bambini: i capelli bianchi non gli avevano fatto dimenticare quando, fanciulla, era lei a scappare dagli adulti in tutta fretta. Non c’è empatia senza memoria. Capì quell’ansia giovanile. L’aveva vissuta anche lei quell’età e, sebbene i suoi erano stati tempi molto più duri, sapeva delle pulsioni di un undicenne, dei sogni scambiati per realtà, dei sogni che diventano malinconie a vita. Lo guardò andar via mentre lui attraversava il cortile a rotta di collo, sparpagliando galline, oche e conigli. Avrebbe voluto dirgli di stare attento, di tornare presto, di non farla preoccupare. Ma a cosa sarebbe servito? Tore arrivò a “Barigau” prima di tutti, molto prima. Voleva scegliersi un posto solitario con la migliore visuale perché lui quei campioni doveva goderseli senza distrazioni, dal primo all’ultimo minuto. E così fu. Il sogno divenne realtà, proprio come nelle migliori fiabe! Il Perdas vinse, Manfredi strabiliò, Ceripa non deluse; e non delusero neanche gli altri. Tutti quanti giocarono la loro migliore partita e lo spettacolo fu avvincente. Fu festa! E fu meraviglia; quella di un bambino undicenne che non credeva ai suoi occhi, che non gli sembrava possibile tanta felicità. Cinquanta anni dopo, tra i commenti di quel post su facebook, a sorpresa, ci fu quello del Ceripa: -Sono Vincenzo Ceripa. Ho visto quella foto e ho letto quell’articolo. Mi sono commosso. Ho sempre nel cuore Perdas … – Quel fuoriclasse di passaggio a Perdasdefogu cinquant’anni fa, commentò emozionato quel nostalgico articolo intriso di stagionata malinconia. Quella partita se la ricordava bene anche lui. Cinquanta anni sbiadiscono i capelli e i ricordi, ma non le emozioni. E, nonostante le altre sue centinaia di partite giocate a ben più alti livelli, nonostante una carriera sfolgorante da allenatore, culminata con la magica promozione della sua squadra di dilettanti tra i professionisti, si ricordava bene, il Ceripa, di quella partita, dei suoi due gol, dei due gol di quel funambulo di Manfredi “Carrabusu”, della forza fisica di Felice, della potenza del tiro di Pietro Efisio, della corsa inesauribile di Francesco, di quel 5 a 1 finale. Ricordi in bianco e nero, facce e luoghi sbiaditi, ma emozioni ancora colorate, vermiglie di passione. E non aveva dimenticato Raimondo Pittau, quella specie di Gaetano Scirea che allora giocava a centrocampo, col numero 10 sulle spalle, in silenzio, quasi in punta di piedi, forse per non far rumore, come se non volesse unirsi al quel trepestio infinito di compagni e avversari che poteva disturbare la quiete di quel luogo. Ricordava quel “Mondino” che faceva incazzare Felice perché non faceva mai fallo, anche a costo di prendere gol, e che al massimo lo si sentiva esclamare con voce lamentosa -Signor arbitro!- se per caso riteneva di aver subito un torto. Ma chi avrebbe potuto prendersela con quel taciturno gentiluomo? Non aveva dimenticato neanche quella FIAT 500 che al ritorno “Mondo” guidò con prudenza, ché in troppi ci erano saltati su per portare quella prima coppa a Perdas, dove non ne era mai arrivata una prima di allora. Ceripa si era posato su quel campo di Ulàssai leggero come una farfalla; con delicatezza ed eleganza ne aveva succhiato il dolce nettare della prima vittoria per condividerlo con Manfredi il funambolo imprendibile, con Mondo e Francesco, con l’intero paese. Durò come un’effimera, se ne persero le tracce fino a quel post su Facebook. Fortunatamente ebbe un destino ben diverso da quella coppa vinta in “Barigau”, un giorno buttata via tra i materiali inerti da mani sacrileghe, inconsapevoli. Eppure, sarebbe bastato avvicinare quel trofeo all’orecchio per sentire, come in una conchiglia il canto del mare, le emozioni degli eroi di quel giorno lontano, di quella prima volta; per sentirne la gioia di un intero paese, lo stupore di un ragazzino undicenne rapito dalla magia di quel trofeo che passava, in una magica serata, colmo di birra, di mano in mano, di bocca in bocca, nei bar festanti del paese: Bar Depau, Bar Melis, Bar Mameli, Bar…, insomma in tutti i bar di allora, numerosi come non mai, sempre affollati, pieni di fumo e di vita fino a tarda notte. Ma furono mani gelide che impugnarono quella coppa per l’ultima volta. Quello stesso nichilismo che già aveva abbattuto l’antica chiesa di San Pietro, che ne aveva cancellato le preghiere biascicate e i pianti sommessi, i battesimi e i funerali, le comunioni tra uomini e donne e quelle dei bambini con Dio; le lacrime e i silenzi di schiene piegate e stanche; e il dolore di ginocchia sugli inginocchiatoi dei banchi di legno tarlato; e il pentimento e il perdono e il silenzio ancora, quello confortevole, che riempie l’anima e ti porta su in alto, fino a Dio, a parlare con lui; quel pensiero che distrugge e non ammette l’arte, che non tollera lo spirito, la bellezza, l’emozione, si era quindi scagliato sulla nostra memoria abbattendo tutte quelle casine fatte di pietra e malta, coi tetti incurvati dagli anni e dalle tegole pesanti di povertà e dignità, per sostituirle con casermoni senza utilità alcuna, ospiti di famiglie mai arrivate, ora dimore senza storia e senza anima, pesanti e cadenti essi stessi. Quelle mani di modernità, insensibili e sprovvedute, guidate dal freddo calcolo, dalla ragione, da quel “due più due fa sempre e solo quattro!”, gettando via quel brutto e ossidato trofeo ritenuto indegno della bacheca, non sono però riuscite a liberarsi di quelle antiche emozioni che tracciarono un solco profondo e incancellabile, nei palpitanti cuori di ruggenti fiere, armate di passione e di voglia di vivere, che si facevano luogo in un’epoca di riscatto sociale. Giovani combattivi che incendiarono un paese intero con una passione nuova, che ancora oggi non si è spenta, trasformati ora in mansueti buoi stanchi del pesante aratro, con gli occhi lucidi di malinconia, “indifesi contro il lavoro del tempo”, spettatori impotenti di un torpore sociale che soffoca e uccide lentamente anche gli spiriti più brillanti. Fortuna vuole che quell’orgoglio provato da una comunità intera sia rimasto nella memoria di quel bambino sudato che pedalava sognante, in sella a una “Legnano” degli anni ’50 con i freni a bacchetta, come un Bartali impolverato nelle strade della Grand Boucle. Infatti, cinquant’anni dopo, quel ragazzino, mani sulla tastiera del computer, “pedalando” indietro nel tempo, ci ha riportati tutti quanti in quel di “Barigau” e in quel viaggio di ritorno di una FIAT 500 stracarica di gioia, tra “due ali di folla”. E ci siamo saliti in tanti con l’immaginazione e con la fantasia, su quella FIAT 500. Tanti nuovi tifosi, tanti curiosi, connessi dalle zone più remote del mondo hanno potuto affacciarsi, grazie alla memoria di un “bambino” di sessanta anni, da un alto balcone che dà sulla strada del tempo, per gettare uno sguardo agli avvenimenti eccezionali del 7 settembre del 1969 di un piccolo, grazioso e amaro paese che un giorno fu grandioso. Grazie a Tore Mura abbiamo potuto “vedere” quei capelloni in jeans e maglietta, con barbe e baffi di protesta, indossare scarpette e calzoncini e dettare inconsapevolmente a quel bambino avventuroso e sognante, le emozioni da serbare per tutti gli sfortunati assenti di quegli anni che non torneranno più. Purtroppo, la fantasia e l’immaginazione, per quanto grandi possano essere, non riescono a darci un nuovo autista al comando di quella piccola automobile carica di così tanti nuovi tifosi. Ci sono persone che lasciano il segno, che non possono essere sostituite, e lui, Mondo, giocatore silenzioso e autista prudente, non ci lascia immaginare nessuno al suo posto. Ci lasciò otto anni fa. Proviamo ad immaginarlo con le mani sul volante, silenzioso come sempre, attento ad ogni curva, ad ogni buca mentre noi, altri nuovi passeggeri, cantiamo e beviamo a più non posso brandendo quella coppa vecchia di cinquant’anni! E ci verrebbe da intonare “Mondino alé! Mondino alé!” se a guidare ci fosse davvero ancora lui. Ma no, lui dall’auto della vita ne è sceso il lunedì dell’Angelo di quel maledetto 2013. Troppo presto. Abbandonò il suo posto al volante senza avvisare nessuno, andò via senza far rumore, in silenzio, chiudendo la portiera senza sbatterla, per non disturbare. Aveva attraversato il mare per sperare, per combattere contro un male imbattibile e scorretto, che entra a gamba tesa da tergo e a gioco fermo, quando non te lo aspetti. Tornò per morire. Forse il richiamo di questo particolare nostro paese era il segnale che non avrebbe voluto cogliere, ma che capiva benissimo, e lo ascoltò. Forse avrà pensato che morire nella propria casa, nel proprio paese fa meno male. Forse. Non dovette aspettare tanto e, nell’attesa, chiese solo un po’ di compagnia per farsi un giretto per asparagi, per rivedere un’ultima volta questi luoghi, questo cielo, visto che il Perdas non giocava. E anche quel Trofeo, come Mondo, è un’assenza pesante, è un vuoto che può cancellare una storia, inghiottire emozioni. Trofei, a Foghesu, ne sono poi arrivati tanti, ma quel vuoto in bacheca non si è colmato, come non si colma il vuoto lasciato nel firmamento dall’esplosione di una stella in mezzo a miliardi di altre. Il cielo è sempre una meraviglia la notte, con tante luci a tempestarlo come di diamanti, ma quella stella spenta è sempre un’assenza e quel vuoto sempre un vuoto. E quel cielo non è lo stesso, proprio come la nostra vita, tempestata di luci spente sempre più numerose, dolorose, inevitabili. Mi piace pensare quel trofeo custodito in una bacheca come un prezioso monile antico, ammirato da quegli eroi inargentati dal lavorio del tempo che lo assaporano con gli occhi come una “madeleine”, come un dolce tuffo nelle acque del tempo passato. E li vedo lì, orgogliosi davanti alla bacheca, gustarsi ancora quel dolce sapore di vittoria; e sento con loro il brivido lungo la schiena dato da quel retrogusto amarognolo del tempo andato, che non ritorna e che immalinconisce. Mi piace immaginare un Felice, un Ceripa, un Manfredi e, perché no? un Francesco e un Mondo, riuniti davanti a quella brutta coppa, passarsela di mano e, con finta indifferenza, scherzarci su, ridere di quel simbolo dei tempi andati come fosse cosa da niente. Cosa da niente, certo, ma che causa una certa agitazione interiore, che torce le budella, che angustia l’anima. E loro scherzano e ridono; ma a denti stretti. E un’amara lacrima si affaccia furtiva nei loro occhi, solo per un attimo, che nessuno nota se non in se stesso: “Ahimè! Basta una sola lacrima per avvelenare il boccale!”.

 A Tore

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